
SELFIE ERGO SUM
Selfie Ergo Sum: sono contento di esser controtempo
Definire la mia esistenza con un immagine di consistenza
Appartenenza fotografica
Anima anastatica
Selfie Ergo Sum
Definire l’esistenza con un segnale di appartenenza
La vita bella e pianificata, dallo schermo colorata.
Nel pensier mi fingo
(leopardi scriveva bene ma non era videogenico)
Lo scatto ci rende immortali
All’interno del pensiero virtuale, non ciò che sei conta ma ciò che mostri
L’apparenza rende inutile e meschina la reale consistenza
Faccine colorate
Anime anestetizzate
Selfie Ergo Sum
Il mio primo post del mercoledì si apre con un testo forte: Selfie Ergo Sum. Il brano, con titolo omonimo, fa parte del nuovo disco di Moloch, in uscita a settembre, il nuovissimo progetto sonoro e poetico del duo Venturi-Moreau.(Il Vangelo di MOLOCH, autoproduzione, scaricabile già da Bandcamp) Ma non è del disco che voglio parlare, quanto piuttosto del titolo ( e quindi del contenuto): Selfie Ergo Sum.
Mi rimane difficile , se non impossibile , non avere un approccio fortemente polemico, nei confronti di questa sindrome dilagante, la sindrome del Selfie. Abbandonata per sempre l’idea delle foto di una volta, scomparse le Polaroid, le vecchie macchine fotografiche, dimenticata l’emozione che ci arrivava ogni volta che dal fotografo si andava a ritirare il rullino stampato, estinto il concetto che le foto è meglio farsele in due, oppure farsele fare, nell’epoca dell’individualismo e dell’egocentrismo , esserci , definire la propria esistenza con un segnale di appartenenza, questo veramente conta. Ho scritto sindrome, che vuol dire malattia, poiché chi ne soffre oggi è malato, malato di depressione, malato di solitudine, malato di presenzialismo.. I social sono affamati di brandelli delle nostre vite, da spolpare come carcasse, non importa davvero cosa fai realmente nella quotidianità , la vita reale è in realtà, la vita virtuale, o meglio quello che gli altri vedono di noi. Possiamo fotografarci e poi fotoshoppare il contenuto, trasformarci da persona normale nella Barbie o nel Ken di turno, la realtà virtuale accoglie e nasconde tutte le nostre bugie. Io stessa, qua dico e non nego, mai potrei, che non sono immune al contagio, qualche volta ci sono cascata anche io, ma, per mia fortuna, non nel baratro.
Qualcuno finisce per crederci veramente, che la vita sia là, aldilà della tastiera. Possiamo giocare a essere chiunque con profili inventati, età e generalità prese in prestito, curriculum fantasiosi e postare la nostra anima anastatica ( leggasi fotocopiata). Oppure da bravi e coscienziosi turisti documentare le nostre vacanze , ci mettiamo in posa davanti al panciuto gallegiante relitto della “Concordia” e ci fotografiamo fieri e tronfi, i soldi del viaggio ben spesi. Dal numero dei “like” che la foto riceverà nel giro di poco tempo, dipenderà l’umore di tutta la ns giornata. Guai mai fotografarsi in atteggiamenti banali o in luoghi scontati, così facendo siamo sicuri che i social non ci guarderanno nemmeno. Di qualche giorno fa appena la notizia di quell’incidente ferroviario(una donna finisce sotto un treno e ha le gambe amputate), ecco, non tanto per il tragicissimo incidente in sé, quanto per chi si è precipitato sul posto e si è fatto un selfie con lo sfondo “arricchito” dalla tragica scena. Vade retro, io non sono d’accordo.
E’ necessario staccare la spina, tornare indietro di qualche anno, rewind immediato. Ridiventare bambini e i giovani di oggi che non sono stati bambini ai ns tempi, dovrebbero farsi raccontare la favola bella (e triste), di quando si facevano le foto…al tramonto, al gabbiano, alla prima neve della ns vita. Prendersi il tempo per raccogliere l’immagine nel cuore , prima di fotografare, prendersi il tempo per respirare. Credo che i social, dopo questa overdose di “faccine colorate”, non sentirebbero la nostra mancanza, ma quello che più importa, a mio avviso, è che noi ne guadagneremmo in benessere mentale e in salute. L’immortalità anche se virtuale, non è cosa umana.