
Il Logo, burka dell’Occidente?
Fermi tutti, oggi è mercoledì. Mi sia concesso di aprire il post proprio con questo titolo, anche se lo dico prima, non scriverò di religione, né di estremismi. Non ho competenza necessaria in tali materie, mi astengo pertanto da ogni commento.
Parlerò invece del logo, come scelta obbligata, imposizione morale, ricatto economico. Un burka dove il termine sta ad indicare costrizione morale e fisica. Da quand’è signori e soprattutto signore care, che abbiamo perso di vista la bellezza? Mi riferisco alla bellezza dell’oggetto che ci guarda da una vetrina e solletica la ns fantasia. La forma, il materiale, il dettaglio, la sfumatura del colore…Cosa cerchiamo in una borsa per esempio? Praticità, o forse un buon rapporto qualità prezzo? Garbo nelle linee o piuttosto un vezzo, un particolare che ci fanno dire che quella è proprio la nostra borsa? Ditemi voi, ma se la vs risposta non è già riportata qua sopra, allora rispondo al vs posto. Nulla di tutto ciò, cerchiamo il logo. Il logo determina il valore dell’oggetto. La bellezza in una delle qualità espresse sopra, richiama alla ns mente lavorazioni artigianali, attenzione per i dettagli, ricerca dei materiali pregiati, ci riporta indietro nel tempo, necessariamente all’epoca in cui parlare di Moda significava parlare anche di lavori specializzati, votati all’Eccellenza. I couturier, i grandi sarti di una volta, le sartorie ma anche più domesticamente, le ns nonne e le ns mamma avevano un tutt’altro approccio. Si lavorava per confezionare il prodotto unico, realizzato a mano. Gli anni ’80, oltre ad essere stati anni di grandi sperimentazione artistica che ha decretato l’ascesa di mostri sacri che oggi rimpiangiamo assai ( Versace è l’esempio calzante), sono stati gli anni della Globalizzazione e qua cito Latouche:
Globalizzazione […] vuol dire esattamente mondializzazione del mercato. […] Il capitalismo e l’economia di mercato, fin dalla loro origine, tendono ad occupare tutti i luoghi disponibili, quindi sono mondiali. Ma se ciò che chiamiamo ‘Globalizzazione’ è solo un altro nome per designare la mondializzazione del mercato, quest’ultima, a sua volta, non è altro che il punto ultimo della mercificazione del mondo, o in altre parole della sua economicizzazione ( tutto viene tradotto in denaro)
Vale a dire che in nome della globalizzazione, dobbiamo produrre più in fretta e possiamo produrre anche della merda(mi si passi il francesismo), poiché se alla fine apponiamo un logo, la m…. di cui sopra si trasforma per magia in cioccolata svizzera. Oppure possiamo dire che il brand legittima le spese più folli, poiché se lo possiamo sfoggiare, stiamo chiaramente gridando al mondo che possiamo permettercelo, facciamo parte di una certa categoria, non siamo insomma dei poveracci con le rate da pagare. Qualcuno nella stanza dei bottoni decide per noi cosa è bello e veicola il ns acquisto col ricatto morale della non appartenenza al branco se si sceglie con la propria testa. Troppo drastica?
Negli anni 60 le grandi sartorie firmavano abiti ed accessori all’interno con etichette piccole e discrete. La finezza era di apporre la firma ma non in un luogo dove potesse dare fastidio : negli abiti non nel collo, ma in prossimità del fianco, o vicino alla zip, nel retro; nelle borse, dentro al taschino interno. Accorgimenti di altri tempi e per me, anima nostalgica che scrive, finezze di stile insuperabili. Da due decadi ormai è tutto uno sventolare di cifre e nomi. Avete dimenticato la scritta Rich ricamata sulle chiappe dei jeans che vi sono costati uno stipendio? Io certamente no. Ma rich oltre che a essere il cognome abbreviato di una noto stilista di oltre manica, si traduce dall’Inglese con ricco, quale altra trovata commerciale può competere con questa? Un genio del marketing e anche del merchandising a cui è doveroso fare i complimenti per il traguardo ottenuto. Quale chiederete voi? Vendere la firma e non il contenuto. Decine di migliaia di pezzi, miliardi di fatturato. Un tiro in porta senza portiere. Questo è un esempio, ma ce ne sono stati molti altri e non lo critico affatto. I consumatori finali siamo noi, quindi semmai la mia critica è rivolta ai genitori che non sanno come dirlo ai figli, che lo zainetto firmato non si può comprare perché costa troppo, poiché senza quello zainetto il figlio non viene accettato dal branco e viene bullizzato o emarginato… Io da piccola, negli anni ’70, andavo a scuola con gli zoccoli di legno e i jeans usati presi a Porta Portese, mi chiamavano “la figlia dei fricchettoni” quando volevano essere gentili, molto più spesso “la poraccia”…. Al liceo( primi anni ’80) se non avevi il piumino Ciesse, non eri nessuno. Io avevo la personalità di spaccamaroni già ben formata e andavo in giro con le Clark e la giacche di pelle con le frange…. Ma certo non posso dire di essere stata molto in compagnia dei miei compagni. Alcune miei scelte sono state da subito sinonimo di isolamento e discriminazione. Non tutti se ne fanno una ragione. L’ho già scritto altrove, la diversità per me, è arricchimento e crescita, mai vorrei essere omologata alla massa, che già la vita mi pare faticosa assai!
Ho deciso di scrivere sul logo una decina di anni fa quando mi sono resa conto che le aziende erano costrette a sfornare marchi, non prodotti. Era l’epoca in cui gli amministratori delegati avevano improvvise intuizioni: la Nike non è un’azienda che produce scarpe da ginnastica, ma l’idea della trascendenza attraverso lo sport. Starbucks non è una catena di caffetterie, è l’idea di comunità. Appartenere vuol dire esistere. Appartenenza vuol dire accettazione nel gruppo.
Con questo non sono contro la firma a priori, ci mancherebbe altro. Per dirla fuori dai denti Chanel continua ad essere Chanel e ti fa pagare la qualità, eccelsa, sempre e comunque. Il lusso è una gran cosa per chi se lo può permettere e ben venga spendere i soldi così. Ma guai se il logo fagocita la qualità, guai cadere nella trappola che il logo possa creare la corazza sufficiente a difenderci dal mondo esterno, quello deve venire da dentro, con basi solide e ricerca spirituale, nulla a che vedere con le regole del dio denaro.
Oggi si potrebbe tranquillamente affermare che se tutti lo indossano, quel certo capo è bello. Il Logo giustifica la scelta anzi la guida e la impone, la ricerca del “bello” è vincolata e asservita all’apparire.
In vacca pertanto ciò che scriveva Schopenhauer sulle tre partizioni dell’essere vivo, che sono filosoficamente : ciò che hai( possiedi), ciò che appari( come appari agli altri, come gli altri ti vedono), ciò che sei( realmente tolta la maschera).
( ringrazio Gianni Venturi per la citazione e per alcuni spunti tratti da una sua conferenza del 2010 ).
Oggi, maremma logata, come appari è la sola cosa che importa.
Se ti mostri tutta firmata, poco importa se chiusa la porta di casa hai le rate da pagare e sai già che non arrivi a fine mese; se la borsa firmata non te la puoi permettere ti legittimi l’acquisto del falso, purché ben fatto, che ti consente l’accesso alla categoria superiore, dove a nessuno importa cosa sei, ma come appari.
Ben triste cosa. Come chiudere e darvi appuntamento alla settimana prossima con un messaggio di speranza in questo mondo di rovinosa sconfitta? Il buongusto deve a mio avviso tornare di Moda, ma il buongusto di cui parlo io ha a che fare con l’etica in primo luogo. Deve diventare un modus operandi, una scelta quotidiana. E no, non sacrifico il mio stipendio e non mi indebito per possedere un logo, piuttosto i soldi quando ne ho, li spendo viaggiando. E non mi privo di nulla, ma non mi faccio mancare nulla, se cogliete la differenza. Un capo firmato non giustifica tante costrizioni e tante privazioni, non mi definisce e non racconta nulla di me. Ma io sono io, appunto, anima romantica, nata nel secolo sbagliato, controcorrente per scelta, insomma one vintage soul…
A mercoledì prossimo, se vorrete.